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Se il virus è “social”

Cari lettori di Trasportare Oggi in Europa,

ci eravamo lasciati immaginando e proponendo un 2020 basato sul rinnovo degli schemi valoriali e, invece, ci ritroviamo ad affrontare una crisi dovuta all’epidemia di coronavirus del calibro e paragonabile, per stati emotivi e impatto sulla quotidianità, a quando il Paese era in guerra.
Il confronto può sembrare forte ma è evidente che le nostre abitudini di vita debbano cambiare drasticamente e rapidamente. Non è facile per un popolo occidentale, e in particolare per noi italiani, così abituati alla democrazia che è sinonimo di libertà, anche se in alcuni comportamenti spesso ne abusiamo.

Ma ora il pensiero che voglio condividere riguarda soprattutto lo spirito darwiniano, insito nell’uomo in generale, e molto spiccato tra gli italiani. Mi riferisco alla nostra estrema capacità di adattamento e sfruttamento in senso positivo di tutte le situazioni, anche quelle in principio vissute come negative.

Il primo forte cambiamento a cui siamo sottoposti riguarda la socialità, i contatti tra amici e conoscenti a cui siamo così abituati e che sono parte integrante del nostro modo di essere e vivere. Ecco, la lotta al nemico invisibile rappresentato dal virus ci costringe oggi a rimodulare la maniera in cui lavoriamo e ci confrontiamo, affidandoci completamente agli strumenti tecnologici che ci permettono di essere molto vicini anche se distanti fisicamente.

Una maniera “smart” di lavorare, di sentirci vicini e di continuare la vita quotidiana. Chiaramente all’inizio si avverte la non naturalezza di questi momenti e gesti, bisogna rieducarci ai nuovi canoni di comunicazione, reimparare le regole con cui ci si relaziona: ad esempio, nelle riunioni presenziali spesso si creano brevi micro-discussioni tra piccoli gruppi, cosa assolutamente non compatibile con una call conference, dove chiaramente è necessario che si parli uno alla volta, e dove ogni frase è necessariamente rivolta a tutti e non più ad una persona in particolare.

Soprattutto vorrei condividere una novità che si ritrova in maniera simpatica, ovvero come organizzare le pause caffè: capita che se stai lavorando da casa con la famiglia, e con la moglie anche lei in smart working, ti fermi a preparare il caffè (con la moka…), ti disconnetti un attimo dal lavoro e fai due chiacchiere con lei nel mezzo della mattina, riscoprendo un piacere originale e intenso, non avendo il tempo normalmente nella normalità della vita di ufficio di prendersi queste pause mattutine con la famiglia.

Quando arrivi ad apprezzare dei nuovi momenti grazie al cambiamento, significa che si supera il momento inizialmente impegnativo in cui la nuova situazione è vissuta come coercitiva, obbligata, peggiorativa e riscopri, invece, dei nuovi modi di vivere che apprezzi e che, potenzialmente, possono diventare la nuova normalità.

Sperando che questa crisi si arresti molto rapidamente, è possibile che alcuni di questi nuovi comportamenti, sperimentati obbligatoriamente per fronteggiare la contingenza del momento, rimangano anche nel “dopo virus”, diventando un nuovo paradigma di normalità: ovviamente mi riferisco alla possibilità di lavorare senza confini temporali e spaziali netti ma in maniera fluida e adattativa, potendo anche alternare e mixare momenti di lavoro e famiglia. Credo che questo rappresenti il vero work-life balance, e non una work-life “split” come spesso era identificata nel periodo “ante virus”, che oramai appartiene al passato

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La parola dell’anno

Cari lettori, eccoci al primo appuntamento del 2019. Come gli anni precedenti vi propongo nell’articolo di apertura una parola che sia la sintesi o un’aspettativa dell’anno che parte. È una tradizione che da diversi anni utilizzo anche in famiglia, dove il 31 dicembre scrivo in un’agenda la parola dell’anno che sta per entrare: per informazione, la parola del 2019 per la mia famiglia è equilibrio: con la principessa Diletta arrivata tre mesi fa e un nuovo lavoro iniziato da due mesi, potete immaginare che sarà assolutamente necessario ritrovare un nuovo equilibrio per mettere insieme queste novità con gli stimoli e impegni già esistenti.

Fin qui una parentesi personale. Ma arriviamo quindi a quella che potrebbe essere la parola del 2019 in un senso più allargato ai nostri tempi, alla nostra società. Confesso che non ho impiegato più di qualche secondo per arrivarci, tanto questa è evidente, palpabile e tanto sento questa parola come comune a tutti gli eventi e fatti che stiamo vivendo ogni giorno.

Di pochi minuti fa è il fallimento interno alla Gran Bretagna della negoziazione della Brexit, con il Parlamento britannico che ha respinto in massa la proposta del Primo Ministro gettando quindi tutti nella massima incertezza di come evolverà la situazione: ma poi quale era il contenuto di questa proposta? Qualcuno l’ha capito? Qualche giornale ne ha parlato? A parte il fatto conclamato che questo accordo scontentava tutti, chi saprebbe elencare uno o due elementi di questo accordo? Credo pochi perché questo rispecchia la superficialità del sistema informativo di oggi, dove si sa praticamente qualcosa, diciamo poco, di tutto. In pratica, senza un approfondimento gravoso in termini di tempo, tutti siamo in grado di parlare di ogni argomento, senza però scendere nel dettaglio, e quindi senza capirci molto…ma questo sarebbe un tema a parte cui dedicare un articolo specifico.

Ma torniamo ai temi attuali. Dando uno sguardo oltre oceano, sembra che in termini di incertezza nemmeno gli americani se la passino bene: da quasi un mese è attivo lo shutdown, un termine strano per indicare la paralisi del sistema statale che coinvolge milioni di lavoratori. La causa? Litigi tra partiti politici, soprattutto con oggetto il muro della discordia tra USA e Messico che sta bloccando un Paese intero. Come si risolverà? Da vedere nelle prossime puntate. In Francia, il caos e l’incertezza regnano da molte settimane: la protesta partita dalla piazza contro il Presidente Macron sta diventando qualcosa di più grande, organizzato, forse un nuovo partito politico. Già la Francia ha mandato al potere un personaggio fuori dal sistema partitico classico, ora questo nuovo dei gilets jaunes potrebbe diventare un ennesimo movimento contro il sistema che si propone senza alcuna base culturale per governare il sistema. Ne sappiamo qualcosa.

Rientriamo quindi in Italia: in casa nostra possiamo dire che l’incertezza non sia qualcosa di contingente e momentaneo ma piuttosto sia strutturale e insita nel nostro DNA. Probabilmente dovuta alla nostra creatività, effettivamente è sempre difficile poter fare una previsione stabile sulla nostra situazione. Da noi, oltre all’incertezza politica si aggiunge anche l’incertezza economica: stanno per partire le tanto desiderate leggi inserite nella manovra del popolo e vedremo quindi se riusciranno a trasformare i dati recessivi (ufficiali) nel boom economico (sognato/sperato). In conclusione, sia in casa nostra che all’estero, questo 2019 inizia sotto una grande incertezza. È chiaro ormai che la parola del 2019 è: INCERTEZZA

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A Tempi Stretti

Per il tema di questo mese prendo spunto da quanto accaduto in Italia in questi giorni di metà novembre. I titoli di prima pagina di tutti i media raccontano di un’apocalisse, di un disastro che ha colpito il nostro Paese, di una sciagura senza precedenti a cui non eravamo preparati. Nessun terremoto, per fortuna, né attacchi Isis, né tantomeno guerre o invasioni. Il problema è che la nostra Nazionale è stata eliminata dalla Svezia e non prenderà parte ai prossimi campionati mondiali di calcio che si svolgeranno l’anno prossimo in Russia. Tutto potevamo accettare, qualsiasi perdita di PIL o aumento di tassazione, ma non questo. Questo proprio no!

 

Al di là di quanto sia importante e vitale per noi il calcio (addirittura qualcuno ha immaginato un problema sociale a seguito di questa eliminazione), è chiaro che questo progetto di Ventura fin dall’inizio non sembrava essere partito sotto i migliori auspici. Pensare che solo dieci anni fa, eravamo noi ad alzare quella meravigliosa coppa sotto il cielo di Berlino: quella era una squadra di campioni, maturi nel fisico e nella testa. Poi, come accade spesso in questi ambiti, si chiude un ciclo e bisogna ricominciarne uno nuovo, ripartendo e ricostruendo le fondamenta. È normale quindi che, andati in pensione i campioni di Berlino, si debba ripartire dai giovani e avviare quel percorso di ricostruzione che, normalmente, richiede del tempo per poter raggiungere nuovamente i risultati eccellenti del ciclo precedente.

Arriviamo quindi al “tempo”, questo strano fattore che è diventato una perla rara o un animale in via di estinzione: nessuno ha tempo, nessuno ha voglia di aspettare, ma tutto deve essere realizzato “qui e ora”.

 

Parlando di tempo, quindi, lascio l’ambito calcistico e mi ricollego a quello lavorativo, del business che viviamo ogni giorno, dove i risultati di lungo periodo non interessano più a nessuno, avendo in questo caso appreso una delle peggiori abitudini americane, ovvero quella di ricercare solo il profitto di breve periodo.

 

Fa un po’ sorridere la frase che si sente sovente negli uffici quando il capo chiede di fare un lavoro ad un collaboratore che gli domanda: “per quando serve?”, e la risposta puntualmente è: “per ieri”.

 

Un simile approccio riguarda i tempi di inserimento e training nel momento in cui si prende una nuova job position in azienda, quello che si definisce “periodo di affiancamento”. Intanto la parola stessa presuppone che ci sia qualcuno al tuo fianco quando assumi una nuova posizione in azienda, idealmente la persona che hai sostituito e che svolgeva il ruolo in precedenza. Oggi l’affiancamento, quando c’è – perché spesso la persona che ha lasciato il posto non è più in azienda, oppure ha un nuovo ruolo a sua volta senza trainer – si misura in ore. Qualche anno fa, invece, tutto era molto diverso.

Ricordo che, quando ho iniziato il lavoro di Zone Manager, esattamente 14 anni fa, il periodo di training è durato un mese, e già era dimezzato rispetto ai miei colleghi che poco prima erano stati formati per un periodo di due mesi. Segno dei tempi che cambiano, e che si accorciano, è il fatto che oggi uno Zone Manager deve essere già operativo dopo una settimana al massimo. È vero che le informazioni circolano molto più rapidamente: internet, il digitale e gli smartphone hanno accelerato il ritmo di tutte le cose e compresso tutti i tempi, ma è altrettanto evidente che alcuni processi, in particolare quelli che interessano tutta l’area comportamentale, richiedono un tempo non comprimibile per essere assimilati, compresi e, quindi, applicati in maniera perfetta.

La fame di risultati immediati è stata maggiormente ampliata da un management ormai basato solo su indicatori di performance, i famosi KPI’s che mettono a confronto numeri, che misurano ma che nulla hanno a che fare con il tempo necessario a cambiare le cose o ad arrivare a determinati risultati. Soprattutto quando un ciclo è terminato ed è necessario ricostruirne uno nuovo. Ad ogni modo, per il calcio abbiamo ora altri quatro anni. Il tempo stavolta c’è, bisogna utilizzarlo bene.